mercoledì 9 settembre 2015

Delitto e castigo.



Nicotera. Quando entrò nel circuito della criminalità, non aveva nemmeno diciotto anni. Un esordio precoce per un ragazzo in cerca del suo riscatto sociale, e non solo per guadagnare soldi facili. E Marco, il protagonista di questa storia, pensava di trovare nella malavita il risarcimento morale a una vita grama, di ottenere dalla società quella considerazione che gli aveva sempre negato. In questo desiderio di prendersi la sua rivincita, era in buona compagnia: giovani squattrinati e disperati, «fragili e malati,- racconta- animati da smania di onnipotenza, e bisognosi di una continua dose di adrenalina». Tutti provenienti da situazioni familiari penose, accumunati dal disagio e dall’ignoranza, attratti dai falsi miti, dal vedere quelli già navigati nel mare della delinquenza «come furbi, astuti e potenti».
A 18 anni Marco era già diventato un piccolo imprenditore del crimine. L’astuzia appresa nell’ambiente in cui si destreggiava lo hanno sempre aiutato a sapersi muovere in un mondo lastricato di mine.
Ma, come capita a chi si arrabatta in questo mondo, anche Marco ha compiuto il suo passo falso. E così un giorno la polizia gli mise le manette ai polsi. Da quel momento iniziò l’altra parte della sua vita, quella segnata dalla pena, da scontare in un carcere del Nord Italia.
Negli anni trascorsi in quella bolgia infernale, Marco ebbe tutto il tempo per capire, valutare il suo operato, e fare il bilancio di una vita disperata. Qui, forse per la prima volta, si vide allo specchio per quello che era davvero: un uomo di 35 anni, con un’esistenza randagia vissuta all’insegna del male e del pericolo, con una famiglia divisa alle spalle, in un contesto degradato; rivide quel bambino solitario e insicuro che era stato, la scuola dell’obbligo e poi l’inizio di un percorso scellerato.
La vita quotidiana in carcere Marco la ricorda come difficile, dura; una prova di forza delle proprie capacità fisiche e psichiche. «Il carcere- asserisce- è un buco nero, il luogo della perdizione, e non della riabilitazione, perché dal carcere si esce più folli, più fragili, più cattivi, più disadattati». Ha visto compagni di cella suicidarsi, schiacciati dal peso della propria condanna; soprusi ed angherie d’ogni genere e sorta, in un cosmo maledetto dove la disumanità pervade carcerieri e carcerati,  dove si perde il senso del tempo e la dignità, dove si incrociano i destini miserabili di detenuti provenienti da ogni angolo del mondo. Qui si guarda in faccia la propria sconfitta, in un giornaliero atto di dolore, ma si meditano nuove vendette nei confronti del destino e della vita.
«La notte- rammenta- dormivamo con i tappi alle orecchie per paura che gli scarafaggi che risalivano dalla turca si infilassero negli orifizi».
Inaspettatamente arrivavano i controlli dei secondini: «Se arriva la “perquisa” mentre stai espletando i bisogni fisiologici non attendono certo che tu esca dalla toilette- rivela Marco- ma ti afferrano dalla maglietta, ti mettono tutto quel tuo piccolo angolo di cella sottosopra, i tuoi quattro stracci sparsi dappertutto. E poi ogni cosa è da risistemare, senza protestare e in silenzio».
Unica consolazione erano le lettere che arrivano dall’esterno. «Di vitale importanza: la sera si attendeva con ansia il secondino che passasse con la posta, perché una lettera può salvare una vita». Bastavano due righe, solo per dire: “ti penso o ti aspetto”, per affrontare con più forza i giorni del castigo.
Ora Marco ha scontato la sua pena. E’ ritornato in Calabria, e cerca di rifarsi una vita. Trovare un lavoro adesso è per lui difficilissimo: nessuno vuole avere a che fare con un galeotto, perchè, pur avendo scontato il suo debito con la giustizia, non riesce a cancellare lo stigma del delinquente impresso a caratteri cubitali nella sua vita. Lo capisce giornalmente, Marco, dagli sguardi carichi di sospetto.
Fermarsi a chiacchierare con un amico, entrare in un bar a prendere un caffè: ogni suo gesto viene letto alla luce di quell’impronta incancellabile.
Invece egli giura di vedere la vita in un altro modo. Comprende l’inutilità e la stupidità di darsi alla delinquenza. «Chi delinque- aggiunge- è spinto dalla mancanza di cultura, di forza, di consapevolezza». In questo, sostiene, «lo Stato ha le sue colpe, perché non garantisce a tutti i cittadini, a tutti i giovani uguali possibilità, non li aiuta ad emanciparsi da una situazione familiare e sociale avvilente, e così diventano facili prede, subiscono il fascino di chi offre a buon prezzo la risalita della china».
Se tornasse indietro, questo giovane uomo con un futuro in salita davanti a sé, farebbe ancora la sua guerra ad una società che non garantisce a tutti uguali diritti. Ma la farebbe con le armi della cultura, dell’onestà, lottando per un mondo migliore, tentando di colmare divari e discriminazioni sociali. «Se tornassi indietro studierei, e lavorerei, in una mano terrei il libro e nell’altra la zappa. Farei qualcosa di importante, e i libri sarebbero diventati i miei soldati per la più nobile delle guerre».