giovedì 29 ottobre 2015

Operazione Ragno. Assolto Antonio Carà



Annullata dalla prima sezione penale della Corte di Cassazione la sentenza di condanna per associazione mafiosa per il ventiduenne Antonio Carà, originario di Filandari.
Il giovane era stato arrestato nel 2011, nell’ambito dell’operazione “Ragno”, contro il clan Soriano di Filandari. Variegato il ventaglio di accuse contro il Carà: reato di partecipazione all’associazione mafiosa, estorsioni, danneggiamenti e minacce. I reati sono stati contestati al Carà quando questi era ancora minorenne, per cui l’imputato è stato giudicato dal Tribunale dei Minori che lo ha assolto da tutte le imputazioni ad eccezione di una tentata estorsione, per la quale gli è stata inflitta una pena di due anni e sei mesi.
Nel 2013 il ventiduenne era stato condannato dal giudice distrettuale di Catanzaro a una condanna di 4 anni e otto mesi di reclusione. Pena confermata in appello il 24 aprile 2014 dalla seconda sezione penale della Corte di Appello di Catanzaro. Ma l’avvocato del giovane, Giuseppe Bagnato, non si è dato per vinto e ha proposto ricorso in cassazione. Martedì, di fronte alla prima sezione penale della Corte di Catanzaro, gli avvocati dell’imputato, Giuseppe Bagnato e Giuseppe Loiacono hanno discusso i motivi del ricorso e chiesto che la sentenza venisse annullata.
In serata è giunto il verdetto della Suprema Corte che ha accolto il ricorso.
L’operazione Ragno, messa a segno dai Carabinieri di Vibo Valentia, ha portato all’arresto nove persone, tutte coinvolte nel reato di associazione mafiosa e accusate, a vario titolo, di attentati, minacce, estorsione, profanazione e distruzione di tombe per intimidire imprenditori e commercianti.
Le indagini, cominciate nel 2010, sono state supportate da intercettazioni telefoniche e ambientali.
Si è così potuto acclarare il ruolo del clan Soriano che operava in una vasta area del vibonese: Filandari, Pizzini, Arzona, Nao, Ionadi, San Costantino, in alcune zone di Mileto e della città capoluogo.

Torre Parnaso mostra segni di cedimento.



Nicotera. La torre Parnaso, un pezzo di storia dell’intero territorio, continua a perdere colpi. Le sue condizioni appaiono sempre più fatiscenti. Di tanto in tanto vengono lanciati sporadici allarmi sull’antico baluardo, eretto nel XIV secolo, contro le scorrerie saracene al largo delle coste nicoteresi. Ma finora non si sono visti interventi atti a limitare lo stato di fatiscenza della struttura. L’ente preposto ad occuparsi dello storico monumento è la Soprintendenza ai Beni monumentali, ma ciò non toglie che, a vario titolo, vi sono vari attori istituzionali preposti ad occuparsi della ristrutturazione della torre cavallara: la Regione, e, nella fattispecie, l’assessorato alla Cultura. Ovviamente un ruolo importante, nel farsi carico del problema, lo detiene anche il Comune di Nicotera. Ma, da quanto è dato sapere, anche su questo fronte nulla si è mosso. E così l’antica roccaforte, muta testimone della battaglia di Lepanto che salvò la cristianità dall’espansione musulmana in Occidente, cede sempre di più sotto gli occhi esterrefatti e preoccupati dei cittadini, già pronti a fondare un comitato, l’ennesimo, per salvare un monumento simbolico e rappresentativo del territorio nicoterese e della sua turbolenta storia. Qualcuno propone addirittura di autotassarsi: una piccola somma a testa, pochi euro, una specie di offerta libera, per permettere i lavori di ristrutturazione, sotto la tutela di personale esperto. Di certo è di fondamentale importanza la collaborazione dell’amministrazione comunale nicoterese, finora indifferente al lento e inesorabile crollo dello storico presidio. Un presidio che finora ha resistito alle ingiurie del tempo e delle intemperie naturali. Probabilmente la sua resistenza è dovuta al fatto che è stata costruita con pietra granitica locale. La parte poi rivolta verso il mare appare più corazzata e ciò per resistere ai colpi di artiglieria che giungevano dai navigli nemici. Essa conserva ancora all’interno un enorme focolare e una canna fumaria, che serviva per lanciare segnali di fumo, mentre di notte in cima ardevano le torce. Dalla sua altura è possibile avvistare le Eolie, la Sicilia e soprattutto era perfetta per monitorare il mare da dove giungevano i temibili bastimenti saraceni.

La prematura morte di Michela Brosio



San Calogero. Aveva solo trent’anni Michela Brosio e tanti sogni da realizzare, tanta voglia di vivere, tre sorelle che l’adoravano e due affettuosi genitori. Ora su di loro si è abbattuta la frastornata disperazione di chi non riesce a capacitarsi di aver perso una persona tanto cara, di quanto la vita possa essere ingiusta, di come sia difficile dare un senso ad un evento inconcepibile. Per il papà Salvatore Brosio, la mamma Teresa De Vita, le tre sorelle Valentina, Monica e Gabriella, il fidanzato Domenico Grillo, sarà difficile trovare consolazione alla sua scomparsa, se non nella promessa cristiana di poterla rincontrare nel giorno in cui le persone si ritroveranno, in un mondo migliore, dopo la morte fisica. Michela, occhi e capelli neri, fattezze mediterranee, era una bella ragazza calabrese, come tante. In lotta con le incognite del lavoro che non c’è in un territorio come la Calabria, immersa nei problemi dei giovani calabresi alle prese con le criticità di un presente pieno di ostacoli, in una terra abbandonata, disseminata di invisibili insidie nascoste tra le pieghe di un territorio insondato e insondabile. Ma, pur nelle difficoltà comuni a tanti giovani, ciò che non ti aspetti è il fulmineo esordio di un tumore, il suo devastante decorso che lentamente ti ruba la vita. E così per la dolce Michela lo scorso agosto è iniziata la sua battaglia per la vita. La lotta più difficile, la più dura, quella contro il male del secolo, in confronto al quale tutti i problemi di ogni giorno sembrano svanire e rimpicciolirsi, sbiadire in un angolo, diventare stupide inezie di fronte alla sacra lotta per resistere, al duellare con un male feroce nel tentativo di rimanere attaccati all’esistenza, il dono più grande. Michela, una volta scoperta la malattia, si è recata  Roma, destinazione il Policlinico dell’Università di Tor Vergata per sottoporsi alle cure. Ha vissuto dunque lontano dalla sua casa e dal suo paese i momenti terribili che, in un crescendo doloroso, l’hanno portata alla disfatta. Così Michela, coraggiosa combattente, ha resistito fino all’ultimo respiro, poi il suo cuore ha detto basta ed ha lasciato questo mondo sospesa verso la gloria eterna di Dio che accarezza di tenero amore le creature più amate.  
Venerdì pomeriggio il triste addio a Michela. Il funerale si è svolto a partire dalle 15.30. Interminabile il corteo che ha accompagnato la salma dalla casa alla chiesa matrice, dove è stata officiata la funzione religiosa. Un’intera comunità, quella sancalogerese, si è stretta intorno alla famiglia di Michela, mostrando affetto e vicinanza, in un composto e commosso silenzio. Sono accorse persone dall’intero territorio vibonese, il padre Salvatore, è socio della notissima ditta di autolinee, molta conosciuta in tutta la provincia.
La straziante vicenda della giovane Michela riapre una questione sempre aperta per l’intera provincia vibonese. Anzi due questioni, due veri e propri gap che fanno precipitare quest’angolo sventurato di Calabria in un baratro sempre più profondo. La prima riguarda la mancanza di un adeguato sistema sanitario che costringe molte persone a recarsi fuori regione per sottoporsi a delle cure, come è successo alla ragazza sancalogerese. L’altro aspetto, più oscuro e apparentemente insondabile, è collegato alla mancata bonifica di un territorio che potrebbe nascondere nel suo ventre i semi della morte. Molti paesi del vibonese contano un numero esponenziale di malati di cancro, francamente troppi in rapporto allo scarna demografia dei nostri piccoli paesi. Ma finora nessuno degli addetti ai lavori, a cominciare dai signori della politica, ha affrontato seriamente il problema. Anche redigere un semplice registro tumori per il territorio sembra un’impresa epica. L’auspicio è che Michela non sia morta invano e che la sua vicenda sia quel sacrificio che serva ad illuminare le menti e le azioni di chi può fare, per questa terra, ma non fa.


Satanismo nel Vibonese



Papaglionti è un piccolo e antichissimo borgo abbandonato, nel comune di Zungri. E’ ormai disabitato, a causa del pericolo delle alluvioni e per la fatiscenza degli edifici. E’ il Pentedattilo del Vibonese, ma consegnato a una inevitabile rovina. L’antico sito, nonostante l’incuria che lentamente lo divora, esercita un grande fascino sui visitatori: c’è un calvario del 1600, mentre gli splendidi palazzi nobiliari continuano a sfidare il peso del tempo e del degrado. Tra le vestigia di un’epoca ormai passata c’è la chiesetta del paese, ora sconsacrata. Al suo interno sono stati trovati gli inquietanti segni riconducibili ai cosiddetti riti satanici.
Ma la piccola e abbandonata Papaglionti non è che uno dei tanti scenari, sparsi nel Vibonese, di strani episodi, le cui tracce conducono a quella che gli inquirenti definiscono, di norma, “pista esoterica”. Azioni sacrileghe il cui scopo è il deturpamento di simboli sacri, nonché l’esaltazione dell’Anticristo, officiando oscene messe in suo onore.
Nel territorio della diocesi normanna, si è verificata una lunga serie di gesti che potremmo ascrivere al cosiddetto “vandalismo esoterico”. Quasi nessuno dei paesi dell’entroterra ne è stato risparmiato: Limbadi, Motta Filocastro, Nicotera Marina, Nicotera superiore, Spilinga, Panaja, San Leo, Calimera. Negli ultimi due anni poi, c’è stata una vera e propria recrudescenza di tali fenomeni. Accanto a ladri senza scrupoli che si introducono nelle chiese per rubare i monili con cui sono adornati i santi o le offerte dei fedeli, in questi episodi, disse nel giugno del 2013, Luigi Renzo, vescovo della diocesi normanna, «possono essere coinvolte anche forze malefiche ed appartenenze a sette esoteriche e sataniche». 
La dichiarazione del presule arrivava all’indomani del furto delle ostie consacrate nella concattedrale di Nicotera. Ignoti riuscirono ad insinuarsi nell’edificio sacro forzando la porta della sagrestia. Portarono via anche la pisside, il calice che custodisce le particole all’interno del tabernacolo.
Un fatto, questo, che generò in paese grande sgomento: sembrò un vero affronto al sentire religioso dei fedeli. L’ultimo in ordine di tempo è quello avvenuto a Limbadi, due giorni fa. Cosa notissima, ignoti nel cuore della notte hanno imbrattato di scritte in odor di satanismo un parco gioco dei bambini. Ma da quel 30 aprile 2013- inizio, secondo gli occultisti, dell’estate esoterica- ad oggi, di fatti del genere la cronaca ne ha raccontati parecchi. Limbadi è stata spesso presa di mira dagli aspiranti satanisti: dopo il tentato assalto della chiesetta della Santa Croce a Motta Filocastro, frazione di Limbadi, si sono registrati una serie di furti nella chiesa del Santo patrono, e qui la pista esoterica si potrebbe incrociare con quella, più battuta, della criminalità comune. Più inequivocabili rimangono gli episodi avvenuti a Drapia presso la chiesa del Santissimo Salvatore di Caria. Qualcuno ha imbrattato con dello spray i muri esterni del luogo sacro: il repertorio è sempre lo stesso: croci rovesciate, i numeri della “bestia” 666. In quell’occasione i vandali hanno sigillato con dell’Attak tutte le serrature dei portoni d’ingresso.
Episodi di profanazione e furti nelle chiese si sono verificati nella chiesa di San Sisto a Joppolo, a Panaia, frazione di Spilinga.
Difficile decodificare questi fenomeni. Se è la noia mortale della provincia a spingere taluni, presumibilmente giovani, a darsi a questo genere di sinistre attività o se invece vi sia davvero la vocazione ad adorare una divinità malvagia.
Di certo il fenomeno sembra non arrestarsi, tant’è vero il 2 novembre 2006 il Ministero dell’Interno, dipartimento di pubblica sicurezza, ha istituito la squadra anti sette, nuova task force specializzata messa in campo dalla Polizia di Stato.
Dalle indagini è emerso che esiste anche il “mercato del demonio: il valore dell’ostia consacrata oscilla da 50 a 500 euro. Insomma, il fascino del denaro spesso supera quello di Satana.

A subire il fascino del satanismo sono, di norma, i giovani. Un fascino che diventa ancora più seducente nella cupa e monotona vita di provincia. Ma il fenomeno, come evidenziato dai rapporti diffusi dal Viminale, non risparmia le città metropolitane. Lo slancio che spinge ad esplorare un mondo alternativo come quello del satanismo è spesso la solitudine e il disagio, oltre che delle velleità di sovversione dei valori costituiti. Un atto di ribellione alla società, attraverso al profanazione del suo credo.
Fermo restando che ci addentra qui in campo ancora da decifrare, il Viminale ha tracciato una geografia delle “religioni alternative” in Italia.  L’istituzione della Sas (squadra anti sette), riporta, tra le ragioni della sua creazione, “l’esponenziale diffusione del fenomeno delle sette esoteriche, di aggregazioni religiose o pseudo tali, di gruppo dediti a pratiche di magia, di occultismo e satanismo, che ha assunto il tutto il Paese dimensioni  e connotazioni da richiamare l’attenzione anche sotto il profilo della sicurezza”.
Un fenomeno in grande espansione. Nel Vibonese forte è il disagio dei giovani disoccupati e che non scorgono dinnanzi a loro una prospettiva futura nel campo del lavoro. O la semplice noia. Stati d’animo che, in soggetti fragili, dà luogo a malcontento e frustrazione, che possono sfociare in svariate forte di protesta larvata, come nel caso specifico.