San
Calogero. Aveva solo trent’anni Michela Brosio e tanti sogni
da realizzare, tanta voglia di vivere, tre sorelle che l’adoravano e due
affettuosi genitori. Ora su di loro si è abbattuta la frastornata disperazione
di chi non riesce a capacitarsi di aver perso una persona tanto cara, di quanto
la vita possa essere ingiusta, di come sia difficile dare un senso ad un evento
inconcepibile. Per il papà Salvatore Brosio, la mamma Teresa De Vita, le tre
sorelle Valentina, Monica e Gabriella, il fidanzato Domenico Grillo, sarà
difficile trovare consolazione alla sua scomparsa, se non nella promessa
cristiana di poterla rincontrare nel giorno in cui le persone si ritroveranno,
in un mondo migliore, dopo la morte fisica. Michela, occhi e capelli neri,
fattezze mediterranee, era una bella ragazza calabrese, come tante. In lotta
con le incognite del lavoro che non c’è in un territorio come la Calabria,
immersa nei problemi dei giovani calabresi alle prese con le criticità di un
presente pieno di ostacoli, in una terra abbandonata, disseminata di invisibili
insidie nascoste tra le pieghe di un territorio insondato e insondabile. Ma,
pur nelle difficoltà comuni a tanti giovani, ciò che non ti aspetti è il
fulmineo esordio di un tumore, il suo devastante decorso che lentamente ti ruba
la vita. E così per la dolce Michela lo scorso agosto è iniziata la sua
battaglia per la vita. La lotta più difficile, la più dura, quella contro il
male del secolo, in confronto al quale tutti i problemi di ogni giorno sembrano
svanire e rimpicciolirsi, sbiadire in un angolo, diventare stupide inezie di
fronte alla sacra lotta per resistere, al duellare con un male feroce nel
tentativo di rimanere attaccati all’esistenza, il dono più grande. Michela, una
volta scoperta la malattia, si è recata
Roma, destinazione il Policlinico dell’Università di Tor Vergata per
sottoporsi alle cure. Ha vissuto dunque lontano dalla sua casa e dal suo paese
i momenti terribili che, in un crescendo doloroso, l’hanno portata alla
disfatta. Così Michela, coraggiosa combattente, ha resistito fino all’ultimo
respiro, poi il suo cuore ha detto basta ed ha lasciato questo mondo sospesa
verso la gloria eterna di Dio che accarezza di tenero amore le creature più
amate.
Venerdì pomeriggio il
triste addio a Michela. Il funerale si è svolto a partire dalle 15.30. Interminabile
il corteo che ha accompagnato la salma dalla casa alla chiesa matrice, dove è
stata officiata la funzione religiosa. Un’intera comunità, quella
sancalogerese, si è stretta intorno alla famiglia di Michela, mostrando affetto
e vicinanza, in un composto e commosso silenzio. Sono accorse persone
dall’intero territorio vibonese, il padre Salvatore, è socio della notissima
ditta di autolinee, molta conosciuta in tutta la provincia.
La straziante vicenda
della giovane Michela riapre una questione sempre aperta per l’intera provincia
vibonese. Anzi due questioni, due veri e propri gap che fanno precipitare
quest’angolo sventurato di Calabria in un baratro sempre più profondo. La prima
riguarda la mancanza di un adeguato sistema sanitario che costringe molte
persone a recarsi fuori regione per sottoporsi a delle cure, come è successo
alla ragazza sancalogerese. L’altro aspetto, più oscuro e apparentemente
insondabile, è collegato alla mancata bonifica di un territorio che potrebbe
nascondere nel suo ventre i semi della morte. Molti paesi del vibonese contano
un numero esponenziale di malati di cancro, francamente troppi in rapporto allo
scarna demografia dei nostri piccoli paesi. Ma finora nessuno degli addetti ai
lavori, a cominciare dai signori della politica, ha affrontato seriamente il
problema. Anche redigere un semplice registro tumori per il territorio sembra
un’impresa epica. L’auspicio è che Michela non sia morta invano e che la sua
vicenda sia quel sacrificio che serva ad illuminare le menti e le azioni di chi
può fare, per questa terra, ma non fa.
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