giovedì 24 luglio 2014

Anna Mazzitelli: la "mammina" che ha visto nascere più di 70 mila bambini.




Si chiama Anna, come la santa protettrice delle partorienti. E infatti, la sua presenza, che si materializzava laddove una donna stava per dare alla luce un figlio, era garanzia di assistenza e protezione per la puerpera e per il neonato che si apprestava a venire al mondo.
Adesso, la signora Anna Mazzitelli ha 84 anni e vive a Limbadi, suo paese natale. Per cinquant’anni ha svolto la professione di ostetrica, la “mammina”, come veniva definita nei remoti paesi del Vibonese. Secondo una stima approssimativa, ha fatto nascere la bellezza di 70 mila bambini: ma per lei, essere mammina non era solo un mestiere, ma qualcosa in più, una vera e propria missione. Quando la ventunenne Anna cominciò la sua attività, la povertà e l’analfabetismo erano le caratteristiche peculiari di un mondo dove ancora era fresco il ricordo della guerra e dei suoi orrori. Nonostante l’incertezza e la paura del domani, le donne davano all’umanità nuovi frutti, che andavano ad ingrossare le fila di quell’esercito di marmocchi, scalzi, poveri e sempre affamati, che dominava turbolento le piazzole dei paesi.
L’umanità vibonese, a quell’epoca, ci svela Anna, nasceva quasi tutta di notte. Non è chiaro quale ragione misteriosa decretasse l’impennata di nascite durante nelle ore notturne. E così, mentre le urla lancinanti delle partorienti scuotevano le notti di un paese immerso nel sonno, Anna presidiava al parto. La sua era, agli occhi dei profani, una missione intrisa di oscure conoscenze cui poche iniziate potevano accedere. Essere mammina era infatti un ministero puramente femminile, collegato alla segretezza dei ritmi della femminilità, dal primo flusso mestruale al momento in cui il seme, nella segretezza dell’utero, diventa un nuovo essere pronto a valicare la frontiera che lo introduce nel mondo. Un ministero spesso trasmesso da madre in figlia, ammantato da una bruma di misteriosa autorevolezza.
Giunta nella casa della puerpera, la signora Anna, come una vera sacerdotessa che presiede al miracolo della vita, era accolta con reverenza e soggezione. Lei, di poche parole e pochi sorrisi, si rimboccava le maniche e, con lo spiccato senso pratico e polso freddo che si deve in questi casi, impartiva precisi ordini a quanti gironzolavano  intorno alla partoriente afflitta dai dolori: in genere gli uomini erano tenuti ad allontanarsi dal luogo del parto, perché l’evento era una “cosa di donne”. Ammesse nella stanza della puerpera, in veste di aiutanti, le vicine di casa, solo se sposate e già mamme. La mammina non si occupava solo di far nascere il bambino, ad essa spettava il compito di fare anche da puericultrice: lavarlo e vestirlo; tornare poi nei giorni a seguire per medicare il cordone ombelicale e sincerarsi anche sulle buone condizioni della mamma. A lei anche il compito di denunciarne la nascita allo Stato civile e presenziare al battesimo.
Insomma, un insieme di compiti, per i quali l’unica ricompensa, in quel mondo poverissimo, era una manciata di ceci, avvolti in carta grezza, un pezzo di sapone, delle uova, o, chi poteva permetterselo, una bottiglia d’olio d’oliva. I più ricchi invece le consegnavano una “busta” con dentro una lauta somma di denaro, in virtù della retribuzione per il lavoro svolto.
Anna Mazzitello si è diplomata in ostetricia al policlinico di Messina. Lei, nata nel 1930, concluse gli studi nel ’51. Il giorno stesso che si diplomò, a poche ore dal suo rientro a casa, fu subito chiamata: una giovane donna aveva finito il tempo e stava per partorire. C’era bisogno del suo aiuto.
«Fui colta di sorpresa,- racconta Anna- ma non per l’emozione che coglie naturalmente una principiante, ma perché non avevo fatto in tempo a comprare gli attrezzi del mestiere. Non avevo nulla: né forbici o divaricatori, ma solo il bagaglio di conoscenze teorico e pratico appreso all’Università. Ma non ebbi nemmeno il tempo di esitare, in una manciata di minuti mi portai al cospetto della mia prima esperienza: mi ritrovai davanti a una donna con una pancia enorme dalla quale sembrava dovesse erompere l’umanità intera. Era una coppia al primo figlio, vivevano immersi in un’estrema miseria. Chiesi se avessero almeno una forbice, per recidere il cordone ombelicale. Il padre del bambino mi fornì una vecchia forbice arrugginita, usata per macellare i maiali. Quei poveretti, non possedevano null’altro, se non quattro vecchi stracci gettati su un pagliericcio, adibito a talamo matrimoniale, un vecchio tavolo e due sedie, all’interno di una casa poverissima». Senza perdersi d’animo, Anna sterilizzò la forbice con alcool, mentre ordinò al padre del bimbo di riscaldare l’acqua che sarebbe servita per lavare il neonato. Nel giro di pochissimo, la giovane donna diede alla luce un bimbo sano e bello, e la miseria imperante non spense di un millesimo la gioia per la nascita di un maschio, fresche braccia per i campi e perpetuatore del nome paterno. Mentre invece, annota Anna, la nascita delle figlie femmine era accolta con palpabile delusione: esse rappresentavano un peso economico per la famiglia, per via della dote di cui ogni ragazza doveva disporre in età da marito.
Anna ricorda la sua prima esperienza come la più emozionante, ma ogni parto era un evento straordinario. «Lavoravo a Limbadi- racconta- ma anche a Rombiolo, a Ricadi, Nicotera, San Nicola; ovunque nel circondario. Portarsi nelle case delle partorienti, non era impresa semplice, in quei tempi in cui non vi erano i mezzi per spostarsi». Raggiungeva i luoghi del parto a bordo di un asinello o con la bicicletta; qualche futuro padre veniva a prenderla con la Vespa, o, chi poteva permetterselo, con l’automobile. E con la sua immancabile valigetta con gli attrezzi del mestiere stretta a sé, attraversava strade sterrate e malridotte, segnate dall’incuria e dall’abbandono.
Nel corso della sua lunga attività, non sono mancati i momenti difficili. «Era una giovane donna,- rammenta Anna- il parto si presentava assai difficile, perché mi resi subito conto che il bambino, quasi intrappolato nella pancia della mamma, era affetto da idrocefalia (malformazione che rende sproporzionatamente grande la testa del piccolo), e non dava più segni di vita. In quell’occasione dovette intervenire un chirurgo di Rosarno, l’unico in zona: la sua presenza era richiesta in casi disperati». Il medico per salvare la vita alla madre dovette praticare il cranioclaste, un intervento estremo che consisteva nel trapanare il cranio del nascituro e svuotarlo della materia cerebrale in modo da rimpicciolire la testa e facilitare l’espulsione del feto. Era, per quei tempi, un intervento barbaro, ma necessario per salvare la vita della partoriente. Il feto morto, venne poi nascosto sotto il letto, per preparare la madre alla tragica notizia. Eventi così drammatici erano rari, ma da mettere in conto. Qui finiva la competenza della mammina e iniziava quella del medico chirurgo, il quale, quando giungeva nella casa segnata dalla grave emergenza, prima di operare, si sincerava che i familiari della partoriente potessero onorare la sua lauta parcella. Se la famiglia era troppo povera, il vicinato, mosso a compassione, organizzava una colletta. La puerpera veniva deposta sul tavolo della cucina, adibito a lettino operatorio, e qui la bravura del medico e la volontà di Dio, decretavano il destino della madre e del neonato.
Ad un certo punto della sua carriera, Anna divenne ostetrica condotta, ovvero pagata dal comune. Prestò servizio anche nella clinica di Vibo. Al termine della sua lunga attività, ha ricevuto la medaglia d’oro da parte dell’Ordine degli Ostetrici di Catanzaro. La motivazione, una delle più nobili: aver aiutato migliaia di donne a partorire, senza che mai una madre o un bambino avessero perso la vita.
Anna, da un bel pezzo ha deposto gli attrezzi del mestiere, le rimangono i ricordi di un lavoro appassionante, la stima dei compaesani, e la sua famiglia. Infatti, nella sua instancabile attività, è diventata madre quattro volte. Con sacrificio e senso di abnegazione, riusciva a dividersi tra la famiglia e la sua missione. Dolce e amorevole come madre, ma distaccata e professionale nel suo lavoro, concreta e capace di congelare le emozioni. «Solo che- ci svela- quando mia figlia ha partorito, non ho retto alla tensione». L’ostetrica che ha assistito a quattro o cinque parti al giorno, nel corso della sua vita, è svenuta nel veder partorire la propria figlia.

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