Nicotera.
Quando
entrò nel circuito della criminalità, non aveva nemmeno diciotto anni. Un
esordio precoce per un ragazzo in cerca del suo riscatto sociale, e non solo per
guadagnare soldi facili. E Marco, il protagonista di questa storia, pensava di
trovare nella malavita il risarcimento morale a una vita grama, di ottenere
dalla società quella considerazione che gli aveva sempre negato. In questo
desiderio di prendersi la sua rivincita, era in buona compagnia: giovani
squattrinati e disperati, «fragili e malati,- racconta- animati da smania di
onnipotenza, e bisognosi di una continua dose di adrenalina». Tutti provenienti
da situazioni familiari penose, accumunati dal disagio e dall’ignoranza, attratti
dai falsi miti, dal vedere quelli già navigati nel mare della delinquenza «come
furbi, astuti e potenti».
A 18 anni Marco era già
diventato un piccolo imprenditore del crimine. L’astuzia appresa nell’ambiente
in cui si destreggiava lo hanno sempre aiutato a sapersi muovere in un mondo
lastricato di mine.
Ma, come capita a chi
si arrabatta in questo mondo, anche Marco ha compiuto il suo passo falso. E
così un giorno la polizia gli mise le manette ai polsi. Da quel momento iniziò
l’altra parte della sua vita, quella segnata dalla pena, da scontare in un
carcere del Nord Italia.
Negli anni trascorsi in
quella bolgia infernale, Marco ebbe tutto il tempo per capire, valutare il suo
operato, e fare il bilancio di una vita disperata. Qui, forse per la prima
volta, si vide allo specchio per quello che era davvero: un uomo di 35 anni, con
un’esistenza randagia vissuta all’insegna del male e del pericolo, con una
famiglia divisa alle spalle, in un contesto degradato; rivide quel bambino
solitario e insicuro che era stato, la scuola dell’obbligo e poi l’inizio di un
percorso scellerato.
La vita quotidiana in
carcere Marco la ricorda come difficile, dura; una prova di forza delle proprie
capacità fisiche e psichiche. «Il carcere- asserisce- è un buco nero, il luogo
della perdizione, e non della riabilitazione, perché dal carcere si esce più
folli, più fragili, più cattivi, più disadattati». Ha visto compagni di cella
suicidarsi, schiacciati dal peso della propria condanna; soprusi ed angherie
d’ogni genere e sorta, in un cosmo maledetto dove la disumanità pervade
carcerieri e carcerati, dove si perde il
senso del tempo e la dignità, dove si incrociano i destini miserabili di detenuti
provenienti da ogni angolo del mondo. Qui si guarda in faccia la propria
sconfitta, in un giornaliero atto di dolore, ma si meditano nuove vendette nei
confronti del destino e della vita.
«La notte- rammenta-
dormivamo con i tappi alle orecchie per paura che gli scarafaggi che risalivano
dalla turca si infilassero negli orifizi».
Inaspettatamente arrivavano
i controlli dei secondini: «Se arriva la “perquisa” mentre stai espletando i
bisogni fisiologici non attendono certo che tu esca dalla toilette- rivela
Marco- ma ti afferrano dalla maglietta, ti mettono tutto quel tuo piccolo
angolo di cella sottosopra, i tuoi quattro stracci sparsi dappertutto. E poi
ogni cosa è da risistemare, senza protestare e in silenzio».
Unica consolazione
erano le lettere che arrivano dall’esterno. «Di vitale importanza: la sera si
attendeva con ansia il secondino che passasse con la posta, perché una lettera
può salvare una vita». Bastavano due righe, solo per dire: “ti penso o ti
aspetto”, per affrontare con più forza i giorni del castigo.
Ora Marco ha scontato
la sua pena. E’ ritornato in Calabria, e cerca di rifarsi una vita. Trovare un
lavoro adesso è per lui difficilissimo: nessuno vuole avere a che fare con un
galeotto, perchè, pur avendo scontato il suo debito con la giustizia, non
riesce a cancellare lo stigma del delinquente impresso a caratteri cubitali
nella sua vita. Lo capisce giornalmente, Marco, dagli sguardi carichi di
sospetto.
Fermarsi a chiacchierare
con un amico, entrare in un bar a prendere un caffè: ogni suo gesto viene letto
alla luce di quell’impronta incancellabile.
Invece egli giura di
vedere la vita in un altro modo. Comprende l’inutilità e la stupidità di darsi
alla delinquenza. «Chi delinque- aggiunge- è spinto dalla mancanza di cultura,
di forza, di consapevolezza». In questo, sostiene, «lo Stato ha le sue colpe,
perché non garantisce a tutti i cittadini, a tutti i giovani uguali
possibilità, non li aiuta ad emanciparsi da una situazione familiare e sociale
avvilente, e così diventano facili prede, subiscono il fascino di chi offre a
buon prezzo la risalita della china».
Se tornasse indietro,
questo giovane uomo con un futuro in salita davanti a sé, farebbe ancora la sua
guerra ad una società che non garantisce a tutti uguali diritti. Ma la farebbe
con le armi della cultura, dell’onestà, lottando per un mondo migliore,
tentando di colmare divari e discriminazioni sociali. «Se tornassi indietro
studierei, e lavorerei, in una mano terrei il libro e nell’altra la zappa.
Farei qualcosa di importante, e i libri sarebbero diventati i miei soldati per
la più nobile delle guerre».