Si chiama Anna, come la
santa protettrice delle partorienti. E infatti, la sua presenza, che si
materializzava laddove una donna stava per dare alla luce un figlio, era
garanzia di assistenza e protezione per la puerpera e per il neonato che si
apprestava a venire al mondo.
Adesso, la signora Anna
Mazzitelli ha 84 anni e vive a Limbadi, suo paese natale. Per cinquant’anni ha
svolto la professione di ostetrica, la “mammina”, come veniva definita nei remoti
paesi del Vibonese. Secondo una stima approssimativa, ha fatto nascere la
bellezza di 70 mila bambini: ma per lei, essere mammina non era solo un
mestiere, ma qualcosa in più, una vera e propria missione. Quando la ventunenne
Anna cominciò la sua attività, la povertà e l’analfabetismo erano le
caratteristiche peculiari di un mondo dove ancora era fresco il ricordo della
guerra e dei suoi orrori. Nonostante l’incertezza e la paura del domani, le
donne davano all’umanità nuovi frutti, che andavano ad ingrossare le fila di quell’esercito
di marmocchi, scalzi, poveri e sempre affamati, che dominava turbolento le
piazzole dei paesi.
L’umanità vibonese, a
quell’epoca, ci svela Anna, nasceva quasi tutta di notte. Non è chiaro quale
ragione misteriosa decretasse l’impennata di nascite durante nelle ore notturne.
E così, mentre le urla lancinanti delle partorienti scuotevano le notti di un
paese immerso nel sonno, Anna presidiava al parto. La sua era, agli occhi dei
profani, una missione intrisa di oscure conoscenze cui poche iniziate potevano
accedere. Essere mammina era infatti un ministero puramente femminile,
collegato alla segretezza dei ritmi della femminilità, dal primo flusso mestruale
al momento in cui il seme, nella segretezza dell’utero, diventa un nuovo essere
pronto a valicare la frontiera che lo introduce nel mondo. Un ministero spesso
trasmesso da madre in figlia, ammantato da una bruma di misteriosa autorevolezza.
Giunta nella casa della
puerpera, la signora Anna, come una vera sacerdotessa che presiede al miracolo
della vita, era accolta con reverenza e soggezione. Lei, di poche parole e
pochi sorrisi, si rimboccava le maniche e, con lo spiccato senso pratico e
polso freddo che si deve in questi casi, impartiva precisi ordini a quanti
gironzolavano intorno alla partoriente
afflitta dai dolori: in genere gli uomini erano tenuti ad allontanarsi dal
luogo del parto, perché l’evento era una “cosa di donne”. Ammesse nella stanza
della puerpera, in veste di aiutanti, le vicine di casa, solo se sposate e già
mamme. La mammina non si occupava solo di far nascere il bambino, ad essa
spettava il compito di fare anche da puericultrice: lavarlo e vestirlo; tornare
poi nei giorni a seguire per medicare il cordone ombelicale e sincerarsi anche
sulle buone condizioni della mamma. A lei anche il compito di denunciarne la
nascita allo Stato civile e presenziare al battesimo.
Insomma, un insieme di
compiti, per i quali l’unica ricompensa, in quel mondo poverissimo, era una
manciata di ceci, avvolti in carta grezza, un pezzo di sapone, delle uova, o,
chi poteva permetterselo, una bottiglia d’olio d’oliva. I più ricchi invece le
consegnavano una “busta” con dentro una lauta somma di denaro, in virtù della
retribuzione per il lavoro svolto.
Anna Mazzitello si è
diplomata in ostetricia al policlinico di Messina. Lei, nata nel 1930, concluse
gli studi nel ’51. Il giorno stesso che si diplomò, a poche ore dal suo rientro
a casa, fu subito chiamata: una giovane donna aveva finito il tempo e stava per
partorire. C’era bisogno del suo aiuto.
«Fui colta di sorpresa,-
racconta Anna- ma non per l’emozione che coglie naturalmente una principiante,
ma perché non avevo fatto in tempo a comprare gli attrezzi del mestiere. Non
avevo nulla: né forbici o divaricatori, ma solo il bagaglio di conoscenze
teorico e pratico appreso all’Università. Ma non ebbi nemmeno il tempo di
esitare, in una manciata di minuti mi portai al cospetto della mia prima
esperienza: mi ritrovai davanti a una donna con una pancia enorme dalla quale
sembrava dovesse erompere l’umanità intera. Era una coppia al primo figlio,
vivevano immersi in un’estrema miseria. Chiesi se avessero almeno una forbice,
per recidere il cordone ombelicale. Il padre del bambino mi fornì una vecchia
forbice arrugginita, usata per macellare i maiali. Quei poveretti, non
possedevano null’altro, se non quattro vecchi stracci gettati su un
pagliericcio, adibito a talamo matrimoniale, un vecchio tavolo e due sedie, all’interno
di una casa poverissima». Senza perdersi d’animo, Anna sterilizzò la forbice
con alcool, mentre ordinò al padre del bimbo di riscaldare l’acqua che sarebbe
servita per lavare il neonato. Nel giro di pochissimo, la giovane donna diede
alla luce un bimbo sano e bello, e la miseria imperante non spense di un
millesimo la gioia per la nascita di un maschio, fresche braccia per i campi e
perpetuatore del nome paterno. Mentre invece, annota Anna, la nascita delle
figlie femmine era accolta con palpabile delusione: esse rappresentavano un
peso economico per la famiglia, per via della dote di cui ogni ragazza doveva
disporre in età da marito.
Anna ricorda la sua
prima esperienza come la più emozionante, ma ogni parto era un evento
straordinario. «Lavoravo a Limbadi- racconta- ma anche a Rombiolo, a Ricadi,
Nicotera, San Nicola; ovunque nel circondario. Portarsi nelle case delle
partorienti, non era impresa semplice, in quei tempi in cui non vi erano i
mezzi per spostarsi». Raggiungeva i luoghi del parto a bordo di un asinello o
con la bicicletta; qualche futuro padre veniva a prenderla con la Vespa, o, chi
poteva permetterselo, con l’automobile. E con la sua immancabile valigetta con
gli attrezzi del mestiere stretta a sé, attraversava strade sterrate e
malridotte, segnate dall’incuria e dall’abbandono.
Nel corso della sua
lunga attività, non sono mancati i momenti difficili. «Era una giovane donna,-
rammenta Anna- il parto si presentava assai difficile, perché mi resi subito
conto che il bambino, quasi intrappolato nella pancia della mamma, era affetto
da idrocefalia (malformazione che rende sproporzionatamente grande la testa del
piccolo), e non dava più segni di vita. In quell’occasione dovette intervenire
un chirurgo di Rosarno, l’unico in zona: la sua presenza era richiesta in casi
disperati». Il medico per salvare la vita alla madre dovette praticare il cranioclaste,
un intervento estremo che consisteva nel trapanare il cranio del nascituro e
svuotarlo della materia cerebrale in modo da rimpicciolire la testa e
facilitare l’espulsione del feto. Era, per quei tempi, un intervento barbaro,
ma necessario per salvare la vita della partoriente. Il feto morto, venne poi
nascosto sotto il letto, per preparare la madre alla tragica notizia. Eventi
così drammatici erano rari, ma da mettere in conto. Qui finiva la competenza
della mammina e iniziava quella del medico chirurgo, il quale, quando giungeva
nella casa segnata dalla grave emergenza, prima di operare, si sincerava che i
familiari della partoriente potessero onorare la sua lauta parcella. Se la
famiglia era troppo povera, il vicinato, mosso a compassione, organizzava una
colletta. La puerpera veniva deposta sul tavolo della cucina, adibito a lettino
operatorio, e qui la bravura del medico e la volontà di Dio, decretavano il
destino della madre e del neonato.
Ad un certo punto della
sua carriera, Anna divenne ostetrica condotta, ovvero pagata dal comune. Prestò
servizio anche nella clinica di Vibo. Al termine della sua lunga attività, ha
ricevuto la medaglia d’oro da parte dell’Ordine degli Ostetrici di Catanzaro. La
motivazione, una delle più nobili: aver aiutato migliaia di donne a partorire,
senza che mai una madre o un bambino avessero perso la vita.
Anna, da un bel pezzo
ha deposto gli attrezzi del mestiere, le rimangono i ricordi di un lavoro appassionante,
la stima dei compaesani, e la sua famiglia. Infatti, nella sua instancabile
attività, è diventata madre quattro volte. Con sacrificio e senso di abnegazione,
riusciva a dividersi tra la famiglia e la sua missione. Dolce e amorevole come
madre, ma distaccata e professionale nel suo lavoro, concreta e capace di
congelare le emozioni. «Solo che- ci svela- quando mia figlia ha partorito, non
ho retto alla tensione». L’ostetrica che ha assistito a quattro o cinque parti
al giorno, nel corso della sua vita, è svenuta nel veder partorire la propria
figlia.