mercoledì 25 marzo 2020

Un'imprenditrice di un'agenzia funebre di Bergamo racconta il dramma "dello smaltimento delle salme". "Noi lasciati senza tutele".




BERGAMO. In questo momento così difficile, che probabilmente resterà impresso a caratteri di fuoco nella memoria collettiva degli italiani, c’è una categoria di operatori di cui si parla pochissimo, ed è quella degli impresari delle agenzie funebri. Sono loro a svolgere la parte più triste, quella a contatto con il post mortem, con il dolore dei familiari, con una salma da portare via, verso la tumulazione o verso la cremazione, senza cerimonia religiosa, senza quel rito funebre che sancisce e accompagna l’ultimo saluto al proprio caro e da cui inizia l’elaborazione del lutto. Ai morti stroncati dalla pestilenza del nuovo millennio per ragioni di praticità e profilassi è negato quel decoro riservato a chi moriva in tempi cosiddetti normali. E sono proprio gli impresari funebri a dover fare i conti con questa realtà. A raccontare un dramma che sembra non aver fine  è la titolare dell’onoranze funebri “Regazzi” di Bergamo. «Siamo allo stremo», dice l’imprenditrice, «perché non riusciamo a far fronte a una situazione emergenziale ormai insostenibile»; ma a venire meno, ascoltando quella voce triste dall’altra parte del telefono, sono anche le forze emotive, psicologiche, anche per chi ha a che fare tutti i giorni con la morte. La situazione è collassata, e le pompe funebri non riescono “a smaltire” (terribile verbo, ma trovarne altri che rendano l’idea è impossibile) tutte le richieste. A decine, ogni giorno. «La cosa che più ci fa male», racconta ancora la titolare, «è non poter dare decoro alla morte, non poter allestire quella cerimonia dell’addio, non poter rendere solenne e decoroso quel momento». «Ci chiamiamo onoranze funebri proprio perché “onoriamo” il defunto, questo è il nostro ruolo». Ma adesso, però, non è più così. Sia per le persone morte a casa o in ospedale, la procedura è sempre la stessa: tutto si svolge velocemente e con la massima cautela per evitare il contagio. Il defunto viene infilato in un sacco in fretta e furia, così com’è, senza cioè la vestizione, perché sarebbe troppo rischioso per gli operatori. Dal sacco nella bara e, dopo l’accertamento di morte da parte del necroscopo, il feretro viene sigillato e destinato alla tumulazione o alla cremazione. Le salme vengono poste in un capannone a Ponte San Pietro, in attesa di essere portate via; qui ricevono una veloce benedizione dal sacerdote. Molte di esse sono destinate alla cremazione, ma poiché i forni crematori lombardi sono ormai al collasso, il comune ha disposto il trasferimento altre città. A provvedere al trasporto è l’esercito e l’immagine della luttuosa marcia dei camion militari carichi di bare verso i templi crematori è rimasta impressa negli occhi di tutti. Un addio straziante, senza conforto e consolazione. «Le famiglie- racconta ancora l’imprenditrice- vedono portato via dall’ambulanza il proprio caro che sta male, ma non lo rivedranno più, perché glielo riconsegneranno in un’urna». Un distacco feroce, di cui, a parere dell’imprenditrice, le famiglie ne avvertiranno lo choc solo dopo che tutto questo sarà finito.
Gli impresari funebri, oltre a guardare in faccia la tragedia e gli occhi smarriti di chi perde così i propri cari, devono farsi carico di tutte le incombenze burocratiche che sorvegliano la morte. Il disbrigo di tali pratiche è completamente a loro carico: servono firme e autorizzazioni a non finire e sono loro a girare per gli uffici a completare i certificati, senza i quali non si può procedere allo smaltimento della salma. La burocrazia è rimasta quella che era, complessa, snervante e indifferente di fronte a un caos come questo. «Molti impresari- aggiunge la titolare- sono malati o in quarantena, e quindi non possono più svolgere tali importanti mansioni. Molti sono costretti a rifiutare le tante chiamate».
C’è il rischio concreto, per la scarsità di operatori, che a qualcuno rimanga a casa il morto per giorni, com’è successo a una donna: le è morta la madre, a casa, il 22 marzo, ma solo il 25 si è potuto provvedere a rimuovere la salma. La situazione si fa sempre più complicata per questi lavoratori, i quali ormai non sono più dei lavoratori autonomi ma svolgono un servizio di pubblica utilità senza però avere le tutele garantite dall’Asp. L’equipaggiamento per proteggersi dal virus è dunque tutto a carico degli impresari. «Noi non stiamo più facendo il nostro lavoro- spiega la titolare dell’Agenzia Regazzi- ci stiamo occupando di smaltire le salme, e lo stiamo facendo esponendoci a grandi rischi». L’Azienda sanitaria provinciale di Bergamo non dà loro né tute, né mascherine. E poiché adesso scarseggiano stanno usando quelle fatte in casa, che sono utili, ma sicuramente proteggono meno. Da parte dell’Asp nemmeno delle direttive, o due parole messe in croce per questi lavoratori. «Le uniche direttive che abbiamo ricevuto- sottolinea l’imprenditrice- sono quelle delle associazioni di categoria, attraverso un’email». «Molti colleghi ci chiamano dal Sud Italia e si dicono preoccupati perché se dovesse accadere anche al Sud ciò che sta accadendo a Bergamo, non saprebbero come gestire la situazione». Una preoccupazione più che legittima visto e considerato che la categoria in questione non è degna di particolari attenzioni governative, in questo delicato frangente. Eppure, il ruolo da loro svolto è difficile, rischioso e assolutamente indispensabile. Senza di loro vivremmo un dramma nel dramma. 
Un’evenienza che non è fantascienza, dato che molte imprese funebri non rispondono più alle chiamate delle famiglie: non hanno più mezzi e protezioni per svolgere queste mansioni.

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